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La domanda dimenticata.

Nell’ap2016-01-07-15_47_29-e1452179234613ertura del dialogo platonico de la Repubblica si intreccia un colloquio breve ma intenso tra Cefalo, il vecchio padre di Polemarco, padrone della casa in cui si tiene il dialogo, e Socrate. Questo piccolo inciso mi ha colpito, fin dalla prima volta che l’ho letto, per la sempre fresca attualità del tema trattato.

Platone rappresenta Cefalo, un ricco personaggio anziano, officiante dei culti religiosi che si svolgono in ambito domestico, lo descrive seduto su uno sgabello, ricoperto da un cuscino, e con una corona in capo, intento nella celebrazione di un sacrificio rituale che continuerà una volta terminato il confronto con Socrate.

Nel breve dialogo che si sviluppa tra i due e che fa da preambolo alla discussione filosofica che seguirà, Platone sintetizza, mirabilmente, la perplessità umana di fronte all’evento della morte e soprattutto sulla possibilità di un destino ultraterreno per  l’anima umana.

Cefalo, quasi a rappresentare l’intero genere umano, esprime a Socrate le paure e le preoccupazioni che l’assalgono di fronte al pensiero della morte, sempre più incombente, per via dell’età, ma soprattutto sul fatto che a seguito di essa si debba affrontare un giudizio per quello che si è compiuto nel tragitto terreno:

«Devi sapere Socrate, continuò, che quando uno comincia a sospettare di essere in punto di morte, entrano in lui paura e preoccupazione di cose per le quali prima non temeva né si preoccupava. Le favole che si raccontano sul mondo di Ade, che chi si è reso colpevole di ingiustizie in questo mondo deve pagarne la pena in quell’altro, anche se fino a quel momento sono state derise, ecco che allora prendono a conturbargli l’anima con il timore che siano vere.»[1]

Le favole, a cui si riferisce Cefalo, le troviamo sintetizzate da Platone nel testo delle Leggi, in due passi, in cui si parla del giudizio individuale dell’anima nell’Ade e delle pene connesse alla propria condotta in vita, e se ne parla come di teorie, la cui origine risale alla  religione dei Misteri.

«Quanto si è detto abbia allora valore di proemio di tutta questa materia, ed inoltre si aggiunga il discorso che molti ascoltano nei riti di iniziazione da parte di chi si occupa di tali cose, e a cui prestano fede assoluta, e cioè che nell’Ade si sconta la punizione per questi delitti, e che una volta ritornati qui è necessario che si paghi la pena naturale, secondo la quale si subirà quel che si è fatto, e per un simile destino terminerà la vita per mano di un altro.»[2]

Una specie di pena del contrappasso, in cui la colpa di cui ci si è resi colpevoli in una vita viene pagato con il proprio sangue in una vita seguente, secondo il mito della metempsicosi.

Infatti riprende ancora Platone nelle Leggi:

«Il mito, o discorso, o come lo si debba chiamare, che viene chiaramente raccontato dagli antichi sacerdoti, sostiene che la giustizia vendicatrice del sangue dei consanguinei è vigile, e si serve della legge di cui si è appena detto e stabilisce che chi ha commesso un fatto simile dovrà necessariamente subire le stesse cose che ha compiuto: se uno ha ucciso il padre, deve subire la stessa sorte violenta da parte dei figli in un determinato periodo di tempo, e se uccide la madre, necessariamente rinasceouroboros_alchimia partecipe della natura femminile, e diventato tale, abbandona la vita, in un tempo successivo, per mano dei suoi figli. Non vi è altra purificazione per quel sangue comune che è stato macchiato, né tale macchia potrà essere lavata prima che l’anima di chi ha compiuto il fatto non abbia pagato, uguale omicidio con uguale omicidio, e non abbia placato l’ira di tutti i consanguinei.»[3]

Oggi la domanda fondamentale che ci stiamo dimenticando e che Platone e Socrate ci rilanciano attraverso il personaggio di Cefalo è: dopo la morte subiremo un giudizio?

Le azioni che compiamo nel nostro tragitto terreno saranno giudicate da qualcuno nel post mortem?

Naturalmente si obietterà che non è dimostrato il fatto che il nostro essere individuale continui ad essere anche dopo la cessazione della vita fisica e che con essa cessino tutte le funzioni che ci individuano come persone. Ma alla stessa maniera non è dimostrato che non sia vero il fatto che la morte è solo un passaggio di stato.

Quindi al di là che uno creda o meno alla tesi della sopravvivenza del nostro essere individuale, rimane ferma la domanda se risponderemo o meno delle azioni che compiamo in vita. Se esiste una giustizia che più forte di quella umana che a volte non riesce a compiere il suo corso,  colpisca in qualche modo e in qualche forma chi si macchia di colpe.

Sembra davvero che si voglia tacere, nascondendo questa domanda, ma nel nostro intimo sappiamo perfettamente che essa è lì e ci inchioda alle nostre responsabilità.

[1] Repubblica, I, 330 d. [2] Leggi, IX, 870 d-e. [3] Leggi, IX , 872 d – 873 a.

 

 

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